Irene Brin è stata una donna all’avanguardia, una scrittrice mitteleuropea, una giornalista innovativa troppo presto dimenticata.
Nasce Maria Vittoria Rossi a Roma il 14 luglio del 1911 da Maria Pia Luzzatto, un’intellettuale, giovane, vulnerabile, di origine straniera e agiatamente borghese e da Vincenzo Rossi, generale, di età matura, di principi inflessibili, di origine ligure e contadina.
Certamente la vita errabonda della famiglia sempre al seguito delle diverse assegnazioni di lavoro del capofamiglia, le origini straniere della madre, nata a Vienna da famiglia ebrea, la rendono cittadina del mondo e capace di frequentare ogni ambiente con egual stile.
La sua formazione sarà di tipo assai particolare: la madre infatti, d’accordo con il marito, la ritirerà dalla scuola molto giovane, all’età di quindici anni, al termine del ginnasio. Sarà lei, da quel momento, la sua insegnante ed il suo riferimento, non solamente scolastico.
La giovane Mariù, come è affettuosamente chiamata da tutti i suoi familiari, cresce leggendo un libro al giorno in diverse lingue tanto da conoscerne in breve cinque in modo talmente approfondito da diventare, negli anni seguenti, traduttrice di inglese, francese, tedesco, spagnolo. La passione per la scrittura si mostra prestissimo.
Quando comincia a scrivere nel 1932 nella redazione del “Lavoro” si specializza in un tipo di articoli più tardi chiamati “di costume”, ma che a quel tempo vengono sprezzantemente definiti “cani schiacciati”.
Avrà bravissimi maestri come Mario Melloni e Giovanni Ansaldo, ma il migliore fu senza dubbio Leo Longanesi che le aveva trovato lo pseudonimo di Irene Brin, un nome corto, brillante, pungente, come la sua scrittura.Il 3 aprile del 1937 sposa il tenente Gaspero del Corso.
Mentre Irene pubblica articoli su più giornali che riguardano diversi argomenti nasce l’esigenza di proporsi con vari pseudonimi utilizzati per caratterizzare i diversi contenuti e le svariate testate, sarà quindi Marlene, Oriane, Adelina, Ortensia, Contessa Clara Radjanny von Schewitch. Le sue prime tracce letterarie sono del 1937 in un piccolo racconto di una settantina di cartelle, non ancora pubblicato, e poi ancora “Olga a Belgrado” scritto nel 1941 dedicato alle esperienze della guerra iugoslava condivisa con Gaspero.
Sono anni duri e la giornalista, non riuscendo a trovare troppo spazio sui quotidiani per le sue cronache, si dedica, alle traduzioni e alla stesura della biografia della Bella Otero. E’ del 1944 “Usi e costumi”. L’anno successivo pubblica “Le visite”, undici piccoli racconti di donne. In questi anni Irene si ritrova nuovamente a Roma, nella casa di Palazzo Torlonia, con il marito Gaspero nascosto dopo l’armistizio insieme ad una trentina di suoi colleghi sistemati nella soffitta in analoghe condizioni e con l’esigenza di lavorare per il mantenimento di questa così impegnativa “famiglia”. Accetta quindi di impiegarsi in un piccolo negozio di amici, “La Margherita” in via Bissolati, dove si vendono le cose più diverse, dai gioielli “fatti in casa” dalla stessa Irene, ai quadri giunti alla coppia come dono di nozze, dai disegni di artisti di passaggio, come Renzo Vespignani, agli oggetti personali dei proprietari del negozio stesso, successivamente trasformatosi in Galleria d’arte.
Anche Gaspero, sotto la falsa identità di Ottorino Maggiore, condividerà con Irene questa esperienza dalla quale nascerà, appena finita la guerra, il 23 novembre del 1946 alle ore 18.00 e grazie ad una piccola eredità paterna di lei, la loro Galleria, L’Obelisco in via Sistina, che inaugura con una mostra di Giorgio Morandi. Prima Galleria romana del dopoguerra, questa diventa in breve un polo di attrazione per gli intellettuali dell’epoca. Sono infatti habitué Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini, Eugenio Scalfari ed Ennio Flaiano, Renato Guttuso e Alberto Savinio. E non solo i due proprietari la utilizzano per promuovere l’arte italiana che non aveva trovato spazio durante il ventennio fascista, ma anche per portare in Italia artisti ancora sconosciuti come Rauschenberg e Calder.
Ogni anno la coppia trascorre lunghi periodi all’estero impegnata nella compravendita di quegli artisti che loro promuovono come esempi dell’arte italiana e alla ricerca di quelli, internazionali, da far conoscere al pubblico romano. Nel 1947 pubblica in francese il primo dei suoi due libri su Toulouse Lautrec, Images de Lautrec, in occasione della mostra promossa da L’Obelisco e, anche se continua a scrivere su diversi giornali, primo fra tutti “Bellezza” con cui collaborerà sino agli ultimi anni della sua vita, sono questi di fine quaranta gli anni che Irene dedica soprattutto alla Galleria.
La crescita di attenzione intorno alla loro “creatura”, i frequenti viaggi all’estero, i molteplici contatti con personaggi influenti di tutto il mondo e di tutte le aree artistiche, sono strumenti che consentono alla coppia di porsi come ambasciatori della nuova Italia rinata dopo le macerie della guerra, come mediatori culturali tra gli stimoli provenienti dal resto del mondo e il grande fermento scoppiato in patria con la fine della belligeranza.
Esce nel 1952 il secondo suo libro dedicato a Lautrec e comincia la collaborazione come Rome editor per “Harper Bazaar”, ruolo che ricoprirà fino al 1969. In tal modo l’America riconosce in Irene la giornalista più internazionale del nostro paese e solo pochi anni dopo, nel 1955, anche l’Italia le riconoscerà il merito di aver esportato per prima con grande intuito e sapienza, forse addirittura inventato, il made in Italy nel mondo, attribuendole l’onorificenza di Cavaliere ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.
In questa fine anni cinquanta e per tutti gli anni sessanta Irene rimane al massimo della sua attività lavorativa: è tra le giornaliste più pagate e continua a pubblicare libri anche utilizzando i vari pseudonimi con cui scrive per moltissime testate, aiuta Gaspero nella Galleria, scegliendo una linea che, rifiutando le proposte Pop giunte dagli Stati Uniti, sposa e promuove con grande slancio l’arte Op.
La sua attività non conosce soste, ma la sua vita quotidiana è fatta di alti e bassi, di giornate serene, ma anche di buio e desolazione. Il rapporto con il marito resta sempre denso di affetto, complicità, rispetto e reciproca stima. La sua esistenza si divide tra il personaggio creato per il pubblico, eccentrico, camaleontico, sofisticato, a volte snob, e le debolezze, le fragilità dell’essere umano.
Nel 1968 cominciano a manifestarsi i segni della malattia che la porterà alla fine. Subisce diverse operazioni, ma non smette di scrivere e viaggiare. Nel maggio del 1969, nonostante la debolezza che la porta a trascorrere a letto molto del suo tempo, decide di partire con Gaspero per quello che sarà l’ultimo suo viaggio: la loro Galleria ha prestato a Strasburgo per la mostra su Diaghilev i Feux d’artifice di Giacomo Balla e Irene ci tiene a non mancare.
Ma al ritorno le forze le verranno meno e i coniugi decidono di fermarsi nell’amata casa di Sasso di Bordighera.
Lì Irene morirà dopo qualche giorno di agonia il 29 maggio, finendo la sua breve errabonda vita nel solo luogo che sentiva come la sua vera casa.